La Tuscia toglie l'embargo all'Iraq

Settanta ragazzini di Bagdad saranno ospitati dall'Avad di Tarquinia

Bagdad, ospedale Saddam for children
Bagdad, ospedale Saddam for children

La Tuscia apre le porte all'Iraq, rompe l'embargo e avvia un canale di solidarietà che dovrà portare, entro i prossimi 15-20 giorni, una settantina di bambini di Baghdad nel centro di accoglienza dell'Avad a Tarquinia Lido. E' questo il risultato del viaggio effettuato da una delegazione italiana nella capitale irachena. Ed è stato a Baghdad che i membri viterbesi delle associazioni umanitarie Help e Avad, Luigi Daga e Filiberto Bellucci, hanno concordato con i vertici del governo locale questa operazione umanitaria che dovrebbe portare nella struttura di Tarquinia Lido una piccola rappresentanza dell'infanzia irachena. L'ultima parola, ovviamente,  spetta ai responsabili arabi ma intanto sia Daga che Bellucci hanno stabilito le loro condizioni: «Da parte ogni discussione politica, la nostra è un'azione umanitaria». Con un'altra determinazione importante: «I settanta che arriveranno dovranno essere bambini malati  o orfani; comunque bisognosi di cure e di affetto». Se l'operazione andrà in porto per loro la permanenza nella Tuscia durerà circa un mese. Poi ci saranno altri arrivi. L'iniziativa umanitaria di Luigi Daga e Filiberto Bellucci contribuisce tra l'altro a rompere quel muro di ignoranza (o di voluta ignoranza) che avvolge la drammatica situazione irachena.

 

A dieci anni dalla guerra del Golfo, allorquando le forze Onu lanciarono sul ricco paese mediorientale un milione di ordigni all'uranio impoverito (30 volte di più di quelle esplose in Bosnia e Kossovo, 6 volte di più della potenza distruttiva delle atomiche di Hiroshima e Nagasaki messe insieme), ogni mese 6000 bambini muoiono di leucemia. Per molti di loro si tratta di una lenta condanna a  morte voluta da quell'embargo dei cosiddetti paesi civili che impediscono l'arrivo in Iraq di medicinali e cibo. E i casi di malformazioni neonatali sono aumentati vertiginosamente. Prima della guerra la percentuale di tumori tra la popolazione (22 milioni di persone) era dell'1,5 per cento. Adesso è del 7 per cento. La dottoressa Hode Saleh Magdi Ammash, responsabile per il ministero della Sanità del laboratorio di analisi delle malattie causate dalle radiazioni, conferma i dati forniti dall'Unicef e disegna un quadro futuro a dirpoco catastrofico. «L'uranio impoverito - afferma - s'insinua nelle piante, nell'acqua, entra nella catena alimentare. Si deposita nelle ossa e attraverso il sangue si espande nel corpo». I più colpiti, ovviamente, sono i bambini per i quali la riproduzione cellulare è rapida. Samy Dilamy, direttore e consulente pediatrico dell'ospedale "Saddam for children" di Baghdad (che sicuramente non è quello nelle peggiori condizioni), espone un quadro drammatico. «Ogni giorno visitiamo 1200 bambini - racconta - solo 100 di questi, i casi più gravi ovviamente, entrano in ospedale. Ci mancano le  medicine essenziali ma anche le attrezzature e il materiale sanitario indispensabile». E fa un esempio:  «Il sangue per le trasfusioni c'è, ma non abbiamo sacche di plastica a sufficienza». Mancano antibiotici, antinfiammatori, tutto il necessario per le analisi. Emblematico il racconto del dottor Corais Fazia, direttore del “Karama general hospital”. «Due settimane fa - dice - avevo a disposizione una sola maschera ad ossigeno per due bambine. Ne ho potuta salvare solo una».

(Gianni Tassi, Il Messaggero 2003)

 

 

 

Dancalia, terra di conquista

GIANNI TASSI

Nella piana di Dallol, terra di Dancalia, al confine tra l’Etiopia nord-orientale e l’Eritrea, in una depressione tettonica di 50 mila km quadrati (di cui 10 mila sotto il livello del mare) dove nel periodo fresco il termometro tocca i 40 gradi e d’estate si arriva fino a 55, i nomadi afar vivono estraendo il sale dalle immense distese infuocate. Colonne di dromedari e di asini partono la mattina dal lontano villaggio di Ahmed Ela quando ancora è buio per farvi ritorno la sera al calar del sole con il pesante carico di mattonelle bianche. Un deserto di 30 mila km quadrati che la rivista del National Geographic ha definito “il luogo più crudele sulla faccia della terra”.

Ma lì, sotto la crosta bollente, esiste un bacino minerario di potassio che gli esperti valutano in 105 milioni di tonnellate e che fa gola alle grandi multinazionali. Il potassio è usato in agricoltura e nella fabbricazione di esplosivi. Adesso vi hanno messo gli occhi canadesi, statunitensi e cinesi. Questi ultimi, col benestare del Governo etiope, stanno costruendo una strada asfaltata che, attraversando tutto l’Altopiano, porterà in Dancalia camion, mezzi meccanici, escavatori e tutto quello che potrà devastare un territorio ancora integro e selvaggio che adesso rischia di sparire sotto i colpi del progresso e del profitto a ogni costo. Quella strada provocherà uno stravolgimento non solo ambientale ma anche culturale e sociale.

Dancalia, terra di conquista, terra magica fatta di grandi bacini di sale, di geyser, acque ribollenti, pozze acide dai colori sfavillanti e vulcani attivi. Uno di questi, il più importante, l’Erta Ale, richiama durante l’anno scienziati da tutto il mondo per le sue caratteristiche uniche: una caldara colma di magma che non cessa mai di ribollire. I suoi abitanti, gli afar, vivono in capanne di fango in piccoli villaggi sotto il sole cocente. Decine di anni fa il governo etiope ha tentato di farli spostare sull’altipiano dove le temperature sono più fresche e dove è possibile coltivare la terra e allevare il bestiame. Loro hanno rifiutato continuando a vivere da nomadi e guerrieri.

A gennaio scorso una spedizione italiana composta da vulcanologi, guidata dall’esploratore Luca Lupi, è tornata in quella terra per aggiornare le ricerche sull’Erta Ale. Un viaggio per niente facile. Due scali aerei: da Fiumicino ad Addis Abeba e poi da qui a Macallè. Quindi il lungo trasferimento con le Land Cruiser scalando l’Altopiano per poi scendere lungo una strada dissestata nella profonda depressione – meno 120 metri sotto il livello del mare – della Dancalia. Accompagnati da un’esperta guida locale e da un drappello di militari armati di fucili. Etiopia ed Eritrea sono da decenni sul sentiero di guerra e da quelle parti non è difficile imbattersi in bande armate incontrollabili. Campo base al villaggio di Ahmed Ela da dove, anche con lunghi ed estenuanti trasferimenti a piedi, si raggiunge la piana di Dallol (6000 km quadrati) e la sommità dell’Erta Ale. Realizzare un reportage in quella terra non è stato facile. Un po’ per le condizioni ambientali – il grande caldo e le pericolose esalazioni dei numerosi laghi acidi – ma anche per l’ostilità degli stessi afar che non guardano di buon occhio gli stranieri e le loro attrezzature di ripresa. Off limits soprattutto i bambini e le donne che il più delle volte sfuggono agli invadenti obiettivi. Un viaggio in questa terra non è cosa semplice, sconsigliato andare da soli all’avventura. Meglio affidarsi ad agenti di viaggio esperti di queste zone. O, al limite, farsi accompagnare da gente del posto affidabile.

 Si viaggia per ore in mezzo al deserto, vedendo solo sabbia, sassi e sporadiche piante che si difendono dalla fame dei dromedari e degli asini ricoprendosi di spine. Piccole e poche capanne sparse nell’immenso deserto: vedendo uomini, donne e bambini e qualche capra smagrita si pensa a quale può essere la vita di questa gente. Non c’è acqua, vanno avanti con qualche  tanica riempita a decine e decine di chilometri di distanza. Non c’è una pianta che possa soddisfare la fame, non c’è ombra. Il verde dell’altopiano etiopico è lontano centinaia di chilometri e tu dal deserto puoi solo immaginarlo e desiderarlo guardando quelle vette che toccano i 2500 metri. Per gli abitanti lì sotto la vita è un’altra cosa, sei in un mondo diverso fatto di sacrifici, di duro lavoro e di pochissimo guadagno.

Ma è un popolo fiero che adesso rischia di essere stravolto dall’arrivo dei nuovi conquistatori. Il miraggio del guadagno ha già spinto qualcuno di loro a lavorare come manovale alle dipendenze delle aziende minerarie e molti altri li seguiranno ma quello che si troveranno in mano quando queste ultime se ne andranno nessuno lo sa. Forse ancora più povertà. Come già successe nel secolo scorso quando le prime società, tra cui gli italiani, abbandonarono le miniere lasciando i lavoratori locali senza stipendio e senza cibo e con un territorio segnato da profonde ferite.

I bambini afar ti sorridono, curiosi, ti circondano e c’è chi ti chiede di guardare dentro il display della macchina fotografica. I più grandi, i vecchi, ti osservano con sospetto. Non si fidano, sanno che chi viene da lontano vuole solo mettere le mani sulla loro terra.

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